Quando l’amore è una camera di tortura
Camere a gas e sale di tortura.
Non trovo altre definizioni
per certe relazioni che vengono chiamate “amori”Antonio Dessì
Ama davvero chi soffre?
Le relazioni hanno una duplice valenza, possono aiutarci o portarci alla dannazione. Tra le ultime, ci sono “storie d’amore” (o di “dolore”) che ci fanno ammalare. Una convinzione che è largamente sostenuta da un punto di vista culturale è che ama davvero chi soffre. Un po’ come tanti classici di letteratura ci hanno insegnato, pensiamo ai Leiden des jungen Werthers, nella traduzione italiana “I dolori del giovane Werther” di Goethe. Werther incontra Lotte ad un ballo, e presto scopre di non poter coronare il suo crescente desiderio affettivo, perché Lotte era già promessa in sposa ad Albert. Werther non si libera facilmente dell’ossessione per Lotte ed è lei stessa a porgergli le pistole con le quali si ucciderà.
Un epilogo struggente, ma presente, anche se con scenari diversi, anche ai giorni nostri. Ci sono donne, e tanti uomini che sentono la propria autenticità nel patire le pene dell’inferno per conquistare il proprio amato/a, sfuggente, anaffettivo/a, strisciante. Solo un esempio di tante “amori camera a gas”. Tale convinzione non ha fatto altro che dilagare come un cancro nella letteratura, nelle opere d’arte, e continua ad esserci anche nelle più recenti fiction e soap opera: donne che soffrono per amore davanti a uomini dagli occhi senza retina, algidi, dove l’unico fuoco di paglia che riescono ad attivare è un impasse sessuale. E dopo il fuoco di paglia, di nuovo il tormento, l’inseguimento. Lo stesso vale per uomini che vanno dietro a donne, il cui unico gesto d’amore é passare sopra il loro petto con i tacchi a spillo, o prenderli al guinzaglio come un cagnolino e portarli a svuotare il loro portafogli nel primo negozio di borse in pelle di coccodrillo della città. Uomini e donne la cui vista si ferma ai bulbi oculari e non procede tramite la retina all’encefalo, e poi al cervello emotivo, presi dal terrore di perdere l’ennesimo specchio umano che parla della loro bellezza e acume, e che ci riporta alla mitologia, dove Narciso si specchia e ricerca se stesso nella sua immagine proiettata sul lago. Anime che non sanno chi sono, al di la’ di quell’immagine riflessa, e che vogliono che si parli di loro usando quell’immagine.
Così spesso soffrire diventa esaltazione e glorificazione per una persona che in realtà non può interessarsi, e se si interessa, lo fa solo nei momenti in cui gli si offre uno specchio in carne ed ossa parlante che gli ricorda che è “il più bello/la più bella del reame”, “il più bravo/a”, “il/la più gentile”. Provate a dire il contrario e rivendicare i vostri bisogni affettivi frustrati. Lo specchio verrà frantumato in mille pezzi. Per avere uno specchio ogni tanto qualche osso senza polpa viene dato. Si, “amori” non ricambiati e relazioni decisamente tossiche, che dovrebbero essere interrotte immediatamente, ma la realtà dice che ce ne sono tanti, e che tante persone non riescono a liberarsene. Così tante donne e uomini, che in fondo credono che la profondità dell’amore si misuri con il grado di sofferenza provata, trovano conferma in questi esempi e cristallizzano matrici affettive con un marchio a fuoco: amare significa soffrire ed essere deprivati nei propri bisogni affettivi più profondi. Storie che affondano le radici le storia affettiva personale, e che consente di sprofondare in una palude di angoscia, di vuoto, nello stato di solitudine. Tutto ciò che è noto, e che è lontano da un vero amore. Talvolta per queste persone tutto diventerebbe più noioso se si vivessero modelli di relazioni che funzionano. Relazioni mature, reciproche, che producono affetto, intimità, rispetto. E’ il mondo dei dipendenti affettivi, persone ancorate ad un triste passato che sganciano le loro ancore in porti di città fantasma, di desolazione, di vuoto affettivo.
Ci sono persone che non riescono a lasciare il partner neanche se questi non è disponibile a livello emotivo e sessuale, ha paura ad impegnarsi in una relazione più profonda (i famosi “ha bisogno di tempo”), è distante, poco amorevole, indagatore e dittatoriale, egocentrico, dipendente da altre cose (droga, alcol, gioco d’azzardo…).
I dipendenti affettivi, persone che hanno una bassa stima di sé, si prendono cura, accettano abusi ed abbandoni.
Ma tra i dipendenti affettivi ci sono anche coloro che non amano più il/le partner e non riescono a lasciarli/e, e così minano il loro equilibrio psicologico.
Alcuni si annoiano all’idea di non soffrire per amore e di non sentire quelle “farfalle allo stomaco”: tormento? rifiuto?. C’è sempre un mantra: “conquistare la statua di cristallo“, fragile, fredda, senza occhi, senza un cuore, ma allo stesso tempo rinunciare a prendere in mano la propria vita, e risolvere i propri nodi irrisolti per aprirsi ad una relazione di vero amore. La consapevolezza della pericolosità di questi messaggi tossici sull’amore che in maniera violenta si ripetono nella vita delle persone dipendenti affettive può orientare verso una graduale rinuncia di tutto ciò che è “conquista”, di tutto ciò che è “sentire il tormento” per un amore che non c’è, e lasciarsi aiutare a ritrovare sé stessi e a comprendere il proprio funzionamento affettivo, per accettare poi di abbandonare la tortura d’amore ed essere visti da occhi che vedono, essere toccati da mani che sentono, ed essere abbracciati da cuori che battono.
Non ci sono “se”, o “ma”. Tutto questo è possibile, a patto di iniziare a prendersi cura di sé.
Dott. Antonio Dessì
psicologo, sessuologo clinico, psicoterapeuta