Elisabetta Antonini: il jazz è la mia evoluzione e rivoluzione personale

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Elisabetta Antonini è cantante e band leader, arrangiatrice e compositrice, studia vocalità jazz, approfondisce lo stile e il linguaggio jazzistico negli Stati Uniti e in Italia con le figure di maggior spicco internazionale. Premiata dalla critica nel referendum annuale indetto dalla rivista Musica Jazz, vince il Top Jazz 2014 come Miglior Nuovo Talento e si posiziona al quarto posto come Miglior Album Dell’Anno. Prima artista italiana a firmare con la prestigiosa etichetta inglese Candid, prodotta dallo storico discografico Alan Bates, intraprende un’intensa attività concertistica che la porta a collaborare con nomi come Paul McCandless, Kenny Wheeler, Enrico Pieranunzi, Paolo Damiani, Vassilis Tsabropoulos, Javier Girotto, Paolo Fresu. Il jazz è entrato nella sua vita improvvisamente e, come un grande amore ha sconvolto la sua esistenza. Ha un legame speciale con la Sardegna, sia per le sue origini, sia per una bella esperienza che l’ha vista insegnante per ben nove anni a Nuoro al Jazz, il Festival/Workshop organizzato da Paolo Fresu. Anni in cui  si è legata alla Sardegna in modo speciale e ha avuto  l’occasione di coltivare amicizie profonde e forti collaborazioni, non ultima quella con l’arpista jazz Marcella Carboni con cui condivide il progetto Nuance che porta in tutto il mondo dal 2009.

RivistaDonna l’ha incontrata per voi…

Elisabetta, quando hai capito di voler diventare una cantante Jazz?

Il jazz è entrato nella mia vita improvvisamente, per caso, studiando canto durante il periodo universitario, e come un grande amore ha cambiato tutto, sconvolgendo le mie abitudini, portandomi nuovi amici, luoghi e serate, un mondo completamente diverso da quello al quale appartenevo. Eppure scegliere di essere cantante jazz come mestiere non è stato immediato, anzi, ha richiesto anni di gestazione e la scelta di abbandonare un’altra strada professionale, che oggi senza rimpianti guardo con tenerezza. Anzichè scegliere di diventare cantante, però, sono sicura di aver scelto innanzitutto di essere jazzista, e di vivere il jazz come il mezzo attraverso il quale compiere la mia evoluzione e rivoluzione personale.

La tua formazione e l’esperienza negli Stati Uniti. Cosa ricordi di quegli anni?

New York è la mecca del jazz e, con ogni probabilità, la culla di ogni nuova tendenza musicale. Quello che ricordo è che ho vissuto quel periodo in uno stato di costante esaltazione per tutti gli stimoli che ricevevo anche solo osservando le persone per strada, artisti e non, tutti determinati a realizzare il proprio sogno. Ho imparato molto dal loro adagio “volere è potere”, e ritornando in Italia ho messo nella mia valigia un po’ di quella concretezza e di quella folle onnipotenza tutta americana.

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La prima volta sul palco che emozioni…

L’emozione che si prova sul palco è il momento più alto e significativo della vita di un artista, che ripaga delle ore passate a studiare nel cercare se stessi attraverso la musica. Il magnetismo che si crea con il pubblico, la comunicazione profonda ma invisibile con i musicisti, la totale esposizione di se nel mostrarsi e raccontarsi, senza filtri, attraverso le canzoni, non finiranno mai di emozionare, neanche dopo anni di esperienza. La mia prima volta è stato da molto piccola e ricordo un’emozione soverchiante che con molta probabilità non mi ha aiutato a dare il meglio. Nonostante la mia timidezza sentivo già un po’ mio però quel modo di farmi ascoltare dalle persone e di suscitare emozioni attraverso la voce.

Hai vinto il premio Top Jazz 2014. Cosa rappresenta per te questo premio?

Il premio che ho vinto è stato grazie al mio progetto The Beat Goes On, un omaggio ai poeti americani come Kerouac e Ginsberg, noti come la Beat Generation, un lavoro di ispirazione letteraria che utilizza il jazz e le sue contaminazioni come colonna sonora di un viaggio immaginario nell’America giovanile, anticonvenzionale e controculturale degli anni ’50. E’ incredibile che i giornalisti e la critica di settore abbiano voluto votare me come Migliore Talento e questo progetto come quarto Miglior Disco dell’Anno, nonostante io sia una specie di outsider, poco vicina al jazz tradizionale e lontana dal virtuosismo vocale. Sono felice per questo cambio di rotta e per il significato che questo premio ha per tutte le cantanti che come me cercano di essere innanzitutto musiciste. Il premio è e rimarrà un riconoscimento importantissimo nei confronti di ciò che ho sempre creduto importante nel mio intento di fare musica: trovare la propria “voce”.

Essere una donna nel tuo lavoro rappresenta un vantaggio o un ostacolo per la carriera?

Mi fanno spesso questa domanda ed è difficile dare una risposta senza mettersi nei guai. Posso dire che i problemi nascono non tanto per il fatto di essere donna, ma donna cantante e, ancora di più, musicista e meno vicina al clichè tradizionale del cantante entertainer. La voce crea delle aspettative nell’immaginario collettivo, e se non c’è corrispondenza, possono nascere notevoli difficoltà e emergere strade sbarrate. Diverso è il destino delle donne strumentiste che a volte fanno carriere meravigliose proprio perché sono così rare. Tuttavia, la musica al femminile, suonata o cantata, tranne qualche eccezione, viene presa meno sul serio, e se anche trova una sua collocazione, è sempre considerata meno interessante e meno di valore di quella eseguita dai nostri colleghi. Tutto ciò ha una ragione storica e socioculturale, perciò man mano che sempre più brave musiciste aumenteranno la quota rosa nel mondo del jazz, assisteremo ad un miglioramento.

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“The Beat Goes On”, voci, atmosfere, un omaggio alla Beat Generation in cui ogni brano è firmato cantato e arrangiato da te. Come è nata l’idea di questo progetto?

Il progetto così pensato nasce in seno ad una serata dedicata a Fernanda Pivano, organizzata dall’Associazione Muovileidee per la Rassegna Da donne a Donna. La Pivano è stata traduttrice e ancora di più amica e confidente dei Beat. Ha sposato il senso di libertà, di parola, di costume, di pensiero dei poeti Beat, ha condiviso la loro lotta contro la sopraffazione, l’ipocrisia, la logica del profitto. Grazie a questa grande figura della cultura italiana, ho recuperato un patrimonio poetico e letterario ricco di significato ancora oggi, scoprendo peraltro che i Beat erano appassionati di jazz e grandi frequentatori non solo degli ambienti underground dei musicisti, ma dediti a reading letterari in cui si facevano accompagnare da musicisti jazz. Così è emersa forte l’idea di volermi dedicare ad un concept album che raccontasse il mondo della Beat Generation attraverso i miei occhi, ed è cominciato un periodo di grande fermento e creatività, di immersione totale nel mondo Beat per poter scrivere le canzoni sulle loro poesie.

Se la musica jazz fosse un colore sarebbe…

A Kind of Blue, una specie di blu, per citare il titolo del famoso album di Miles Davis, icona del jazz. Un colore pieno di mistero, caldo e avvolgente, profondo e intenso.

Sarai tra i protagonisti a Cagliari di Forma e poesia nel Jazz. Cosa provi a portare i tuoi brani nella nostra isola?

Ho un legame speciale con la Sardegna, sia per via delle mie origini, sia per una bella esperienza che ho avuto modo di fare insegnando per ben nove anni a Nuoro Jazz, il Festival/Workshop organizzato al tempo da Paolo Fresu. Paolo è un grande catalizzatore e divulgatore della cultura sarda, ha un bellissimo modo di attirare musicisti, appassionati o semplici curiosi che affollano in massa le sue iniziative e di proporre modalità stimolanti e originali per far conoscere la ricchezza della tradizione musicale Sarda. Quegli anni di seminario sono stati molti coinvolgenti per me e mi hanno fatto affezionare alla Sardegna in modo speciale, mi hanno dato l’occasione di intessere amicizie profonde e forti collaborazioni, non ultima quella con l’arpista jazz Marcella Carboni con cui condivido il progetto Nuance che portiamo in tutto il mondo dal 2009.

L’invito al Festival Forma e Poesia mi onora profondamente sia per l’ottima direzione artistica che ne fa da sempre Nicola Spiga, sia perché il pubblico sardo è un pubblico colto, che ama la musica anche quando non è addetto ai lavori. Ci sono quindi delle ottime premesse per la presentazione di questo mio progetto e molta curiosità da parte mia.

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Tornerai in Sardegna?

Mi auguro di tornare presto, ma senza dubbio avrò l’occasione nel futuro prossimo di presentare un nuovo disco del progetto Arpa&Voce Nuance sul quale stiamo lavorando con l’arpista jazz cagliaritana Marcella Carboni.

Progetti futuri?

Al momento è appena uscito “AH!” con l’ensemble Pollock Project, di e con Marco Testoni e Simone Salza, un progetto multimediale che coniuga arti visive, minimalismo e improvvisazione utilizzando la voce e l’elettronica, sassofono e clarinetto e caisa drums, una percussione poco conosciuta ma dal colore suggestivo. Stiamo partendo con la promozione di questo disco che ci vedrà presentarlo in varie città italiane in attesa di portarlo all’estero.

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