“Le cose migliori” romanzo d’esordio di Valeria Pecora

copertina libro

Valeria Pecora nasce a Cagliari il 6 aprile 1982. Vive ad Arbus, un bellissimo paese tra mare e miniere. Si è laureata in Storia dell’arte e specializzata in arte contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Lavora come guida turistica e adora viaggiare. “Le cose migliori” è il suo romanzo d’esordio.

E’ un romanzo di formazione che celebra la crescita della protagonista, Irene, attraverso il percorso della malattia e dell’amore. Irene non è malata. Lei è “figlia” di Parkinson. Sua madre viene condannata dalla sua malattia invalidante ad una maternità zoppicante. Un romanzo che sta suscitando la curiosità e l’attenzione anche da parte di quelle associazioni che si occupano della lotta contro questa patologia.

RivistaDonna l’ha incontrata per voi…


Valeria, nel tuo libro d’esordio “Le cose migliori” racconti la storia di Irene che definisci la figlia di “Parkinson”…

Irene è la protagonista del mio romanzo, la voce narrante è lei che prima bambina, poi adolescente e infine donna ci prende per mano e ci racconta la storia della sua vita.  Le cose migliori” (casa editrice Lettere Animate) è un romanzo, in parte autobiografico che prende spunto dalla diagnosi di Parkinson giovanile che arrivò in uno studio medico a cambiare il destino di mia madre, una mattina di un ormai lontano 1990. L’espressione di “figlia di Parkinson” è affiorata spontaneamente, sono consapevole che risulti forte, tuttavia non volevo nascondere questa realtà, anzi, volevo far capire con questa definizione che quando una malattia così impegnativa e cattiva entra in una famiglia…tutti ne sono toccati, non solo il malato ma anche i figli e i rispettivi coniugi.

 Quando hai maturato dentro di te l’idea che fosse arrivato il momento di raccontare questa storia? 

Due anni fa mi sono presa un lungo periodo di tempo per scrivere e ho capito che dovevo fare pace con una parte della mia vita. Volevo dimostrare a Mister Parkinson, nella nostra infinita guerra, che nonostante tutto non è riuscito a schiacciarmi quando ero bambina e quindi più fragile e indifesa, figuriamoci ora che sono un’adulta. Ho capito che dovevo raccontare questa storia perché avevo raggiunto la mia maturità di donna. Volevo dimostrare con questo libro, con le mie parole, che se l’amore è alla base della nostra vita, delle nostre radici riusciremo a superare anche le difficoltà più gravi e dolorose. Ci pensate mai a tutte quelle volte che i papaveri spuntano dal cemento? Spesso guardandoli mi sono sentita come quel fiore, capace di pulsare di colore anche in un ambiente poco ospitale.

 “Donatori di cura” donatori di amore, attenzione, speranza,  cosa vuol dire donare tutto ciò…

Vuol dire prendersi cura del proprio familiare dal punto di vista fisico, pratico e spirituale. La cura non può limitarsi ad imboccare o a dare le medicine, aiutare nell’igiene personale ma vuol dire dispensare attenzioni continue anche affettivamente. Vuol dire sforzarsi di sorridere per dare forza a chi sta male, anche se dentro spesso vorremo solo lasciarci andare ad un mare di lacrime. Vuol dire sperare, saper cogliere i momenti di serenità anche se sono rari. Donatori di cura vuol dire rispettare i ritmi del familiare malato, imparare ad aspettare, stravolgere le proprie abitudini pur di raggiungere un equilibrio che assomigli il più possibile alla normalità.

 Cosa cambia nella vita di una famiglia che attraverso un parente con il Parkinson vive questa malattia?

La propria vita viene stravolta, si devono adottare nuovi ritmi e nuove abitudini, spesso subordinate alle esigenze della malattia. Se un familiare si ammala di Parkinson quando si hanno figli piccoli, per i figli vuol dire crescere prima del tempo, diventare adulti, prendersi cura dei propri genitori.

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Trovare lavoro con tante difficoltà quanto diventa importante?

Fondamentale perché la realizzazione professionale è imprescindibile per chi ha una vita familiare normale, diventa ancor più vitale, un’ancora di salvezza per chi ha un familiare malato. Lavorare e uscire di casa permette di staccare la mente da una situazione di forte stress, quest’ultimo effetto collaterale inevitabile quando in una famiglia subentra una malattia così importante.

Dopo la presentazione del libro è iniziata una collaborazione con una start up di Milano che attraverso un sito web offre aiuto ai familiari dei malati. Spiegaci meglio di cosa si tratta…

Grazie al mio romanzo “Le cose migliori” sono stata invitata a collaborare con una start up di Milano, che attraverso un sito web offrirà tutto l’aiuto ai familiari dei malati. Il sito VillageCare.it pubblica quotidianamente e gratuitamente guide, articoli e consigli pratici, con l’aiuto di esperti del settore, ponendosi come “bussola di orientamento” e punto di riferimento per i caregiver nel riconoscere i sintomi di una malattia, nell’affrontarla giorno dopo giorno e, soprattutto segnalando quali strutture o servizi sono più adatti per la loro situazione.

Che consiglio ti senti di dare a chi come te sta vivendo questa situazione?

Di chiedere aiuto se si capisce di non farcela a sostenere da soli una situazione così stressante. Vorrei anche dire che spesso è facile cadere preda dei sensi di colpa e che a volte la voglia di scappare lontano e di staccare da una situazione così pesante…è normale, vuol dire essere umani. Non bisogna temere le proprie fragilità e non bisogna dimenticare i propri diritti, oltreché i doveri. Spesso si ha questa sensazione, di restare imprigionati in una gabbia di dolore e di responsabilità da cui non si vuole e non si può scappare. Consiglio di informarsi e di farsi aiutare il più possibile nella gestione della malattia di un familiare.

 Cosa dovrebbero fare le istituzioni?

Dare più visibilità ai familiari di un malato perché oggi, nella maggioranza dei casi è proprio nel nido familiare che si concentra il maggior impegno, tutte le energie e la forza per la cura di un malato. Bisognerebbe riconoscere la figura dei caregiver (donatori di cura) e devo dire che si stanno muovendo i primi passi in tal senso. Perché non organizzare per esempio delle giornate di sensibilizzazione a sostegno dei familiari del malato? Degli incontri dove i familiari possano dialogare con medici, infermieri o psicologi su come affrontare meglio il carico di stress, fisico e mentale che impone la malattia?

Come immagini il tuo futuro?

Una lotta continua e meravigliosa per la felicità, per la vita. Vorrei continuare a scrivere e a coltivare l’amore per le storie da raccontare. Mi immagino di vivere in una casa con giardino, un cane, una libreria in legno piena di libri e soprattutto un marito e dei figli, a dare fondamenta e radici alla nostra casa.

Hai un sogno da realizzare?

Entrare un giorno a casa mia, tenere tra le braccia mio figlio e poterlo presentare ai miei genitori. L’unico sogno che ho davvero importante è chiedere vita al tempo e tempo alla vita.

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