Chiara Pelossi: Un magico sogno
Un magico sogno di Chiara Pelossi
L’estate si stava avvicinando e io, spesso irrequieto, non sentivo più la forza di un tempo. Al mattino il sole splendente e gli uccellini cinguettanti non mi invitavano più ad uscire dal letto per iniziare un’altra affascinante giornata. Così come Ulisse era scampato alle sirene, anch’io rifuggivo dal loro canto ammaliatore e poltrivo a occhi chiusi immerso nei ricordi, finché qualcuno non mi veniva a destare. Solitamente Bruno, il mio nipotino più piccolo, batteva insistentemente le sue manine appiccicose sul mio viso rugoso, finché non aprivo gli occhi e lo trascinavo con me sotto le coperte. Quante cose succedevano quando eravamo insieme, senza spostarci ce ne andavamo in posti meravigliosi sperimentando avventure degne di un film di Hollywood. Io regista indiscusso di questi lungometraggi e lui protagonista entusiasta. In quegli attimi di pura gioia, nonostante gli anni avessero solcato il mio viso e reso lento e deformato il mio corpo, sentivo la scintilla della vita riaccendersi e irradiare la sua forza prepotentemente. Avrei potuto volare fra le liane della foresta amazzonica, avrei potuto lottare con un leone africano, avrei … cosa avrei dato per poter vivere quei momenti con il mio piccolo amico, sangue del mio sangue, parte del mio futuro. Futuro, suonava strano utilizzare una parola tanto importante, piena di presagi. Il passato lo sapevo era ormai storia, il presente lo vivevo adesso, ma il futuro sarebbe stato solo un grande regalo da aprire e conservare con reverente soggezione.
“Nonno, mi porti ancora a pescare dove c’è tanto ghiaccio e freddo?” Mi chiedeva Bruno agitandosi al mio fianco, con gli occhi accesi di luce ad illuminargli il visetto furbo.
“Certo, mettiti comodo che partiamo”
Stavamo così ancora qualche minuto fra pesci di inenarrabile misura e fantomatiche catture, fintanto che nonna non faceva il suo ingresso. Il grembiule stretto intorno alla vita, le labbra atteggiate in un gentile rimprovero e le mani perennemente bagnate e profumate di essenze provenienti dalla cucina, scostava le coperte lasciandoci esposti al fresco mattutino. L’avevo conosciuta più di mezzo secolo fa e ancora mi faceva battere forte il cuore. La vita non era certo stata clemente con noi, ma ce l’avevamo sempre fatta, affrontando le avversità con semplice accettazione e tante risate … eh sì, era proprio simpatica la mia Giannina. Piccola, magra e scattante proprio come Bruno. Sotto gli occhi ormai slavati dagli anni, rivedevo ancora la furbetta che era stata un tempo. Si era fatta beffe anche dei tedeschi, affrontando il rischio della morte con la sua risata cristallina che riecheggiava affascinando tutti, persino i detentori del suo destino che la lasciavano libera di andarsene momentaneamente stregati. “Alzatevi pigroni, il sole è già alto e c’è da cogliere le ciliegie oggi”. La parola ciliegie non ci mise molto a mettere le ali a Bruno che, festoso come un cagnolino che rivede il padrone, mi scodinzolava intorno spingendomi ora, issandomi dopo, preso nel tentativo di velocizzare la mia levata. Avrei voluto dare un colpo di reni e prenderlo in braccio, farlo volare alto sopra di me come facevo con i miei figli, ma la paura di farlo cascare mi tratteneva. La sua incolumità era più importante dei miei stupidi desideri di sentirmi ancora giovane e forte.
In giardino Gianna ci serviva come d’abitudine la colazione sotto al porticato, i glicini in fiore riempivano l’aria di un profumo che era difficile scordare, le piccole api ci ronzavano intorno attingendo dai fiori il nettare prezioso. Le più coraggiose si posavano a riposare incuriosite dal profumo della marmellata. Il loro manto carico di piccole palline di polline era per Bruno fonte di risate. Facevamo a gara a chi trovava l’ape più cicciottella, scordandoci momentaneamente di assaporare il pane fresco e croccante. Finita la colazione era giunto finalmente il momento di cogliere le ciliegie. Camminando fianco a fianco con due piccoli secchielli eccoci sotto al grande albero, che tante volte ci aveva visti rubargli i frutti del duro lavoro di sole, api e natura. Il miracolo della rinascita primaverile e lo sbocciare estivo di profumi, frutti e colori era una cosa che riusciva ancora a sorprendermi. Erano più le ciliegie che finivano per essere mangiate di quelle che riuscivamo a racimolare nei nostri contenitori.
“Voi due, la smettete o non ne resteranno per la crostata!” esclamava Gianna avvicinandosi con il viso rivolto al sole.
Quando mi si fermò accanto la presi per un braccio facendola sedere sulle mie gambe, la strinsi a me. Quanto avrei voluto darle un bacio, uno di quelli appassionati, ma rischiavo solo di risultarle patetico e così optai per uno fugace sulla guancia con Bruno che distoglieva gli occhi e urlava
“Nonno, che schifo non si baciano le femmine!”
“Hai ragione, rischierei di perdere la dentiera e sai che pasticcio!”
Ridevamo tutti ora, anche gli animaletti intorno a noi sembravano felici di sentirci, come se l’energia che stavamo sprigionando potesse giovare anche a loro. Mi rividi per un attimo ragazzo e ne fui felice.
Stare con Bruno diventava a volte un vero lavoro, un bimbo di cinque anni che, instancabile come le formiche, non riusciva a stare fermo significava un impegno costante. Gianna era più brava di me nel farlo calmare, mentre io, a tratti stufo di sentirlo vociare, mi chiudevo in me stesso ergendo una barriera di silenzio fra me e il resto del mondo. Era il mio personale metodo di salvaguardare quel poco di energia che ancora mi restava, o almeno così credevo.
“Perché il nonno non gioca più?” Chiedeva lui con gli occhietti spalancati e un inizio di senso di colpa.
“È solo stanco, lasciamolo riposare” Gli rispondeva Gianna guardandomi con apprensione.
Questi momenti di distacco si stavano intensificando da qualche giorno e, anche se me rendevo conto, non volevo lottare per allontanarli. Restavo impigliato in questa ragnatela viscida con la mente stanca, facendo girare i pensieri sempre nello stesso modo, senza rendermi conto che questo mi intrappolava inevitabilmente, facendomi subire un’introspezione che non era benvenuta alla mia età. Per fortuna un breve sonno ristoratore si faceva strada in quei momenti, staccandomi dal fastidioso torpore dei pensieri sterili di un vecchio stanco. Stavolta però il sonno non mi portò giovamento, mi portò qualcosa che non si può comprare o ottenere lavorando, mi portò la libertà. Quella tanto anelata voglia di staccarmi dal qui e ora si stava avverando, stavo correndo spensierato nei prati, saltellavo come un giovane capretto beandomi di avere a disposizione tanta brillante energia. I colori del mondo rilucevano di vivida intensità e bellezza. In quel momento capii che, se volevo vivere qualche momento degno di essere chiamato “vita”, avrei dovuto togliermi quel sapore di nostalgia che tenevo tanto stretto a me, quasi fosse un’ancora di salvezza. Decisi in quel preciso istante che avrei dato tutto me stesso d’ora in poi, senza più conservarmi inutilmente per un domani che magari non sarebbe mai arrivato.
Spalancai gli occhi, vigile e sereno come da tempo non capitava, e chiamai a gran voce: “Bruno, bruno andiamo a pescare!”
Quel mio richiamo non tardò a farlo arrivare. Mi saltò in braccio accarezzandomi il viso per sincerarsi che non stessi scherzando.
“Sei sicuro nonno, è da tanto che te lo chiedo, davvero?”
“Sì, sì, sì!” Urlai alzando le braccia al cielo ringraziandolo con una muta preghiera per questo magico sogno, che portava con sé un’ondata di nuova e inattesa consapevolezza, capace di spazzare via la paura.
Cercammo a lungo senza scoraggiarci, ma nel capanno non c’erano più attrezzi utili alla pesca. Poi mi venne in mente che da ragazzino pescavo con un semplice ramo, un filo e un chiodo ricurvo. Avremmo sicuramente potuto arrangiarci così. Tornammo al caro ciliegio che tronfio rivolgeva le sue foglie al sole e gli spezzammo due rami lunghi e teneri. Gianna ci diede del filo robusto e una vecchia trave dimenticata dietro al capanno ci regalò dei chiodi arrugginiti che ben servivano al nostro scopo. Sperai, mentre ci allontanavamo allegri sotto lo sguardo sorpreso di Gianna, che il piccolo riale fosse ancora generoso di giovani trotelle inesperte. Non avevamo esche fresche da offrire loro, solo pane secco. Le due ore che trascorremmo a riva sono quelle che ancora ricordo con più gioia: il visetto entusiasta di Bruno, la semplicità con la quale riuscivamo a stare insieme mi sorprendeva e stupiva ogni volta, come se ci conoscessimo da tempo immemorabile. Inutile dire che le trotelle ci fecero l’onore di abboccare e che quella sera la cena fu la più saporita e appagante che un uomo possa desiderare. Il cibo non era l’ingrediente principale, lo era l’essenza della vita stessa che si perpetuava nei nostri ancestrali gesti, era l’amore generazionale che ci faceva capire con uno sguardo, era la gioia di stare insieme senza aspettarsi nulla dal domani.