IL CINEMA DI “GIAIME LEWIS SPINA” TRA LO STIVALE E GLI STATI UNITI.

Ho incontrato Giaime Lewis Spina durante la lavorazione di “Blu Disincanto” girato nella scogliera di Calamosca il suo primo progetto come regista, Il film è un cortometraggio drammatico di produzione indipendente italo-americana. Questa intervista è un interessante sguardo cinematografico raccontato da un giovane e talentuoso autore:

 

  1. Giaime ti presenti brevemente ai nostri lettori?

Sono Giaime Lewis Spina, ho 19 anni, sono un artista, recito, scrivo, vivo, sono nato in Italia ma attualmente vivo tra lo stivale e gli Stati Uniti, attualmente sto lavorando al mio primo vero e proprio progetto come regista.

 

  1. Che radici ha la tua passione per il cinema?

– Viene da lontano. Negli anni, mi sono accorto che, se c’è una costante nella mia vita, è andare a caccia di una percezione elevata ed intensa dell’esistenza. Non ridere, ma mi azzarderei a dire che mi viene naturale percepire la realtà ad un’intensità elevata, solo che a volte questo si ritorce contro di me e tutto diventa eccessivamente pesante; non dico che preferirei non sentire, ma spesso tendo a perdermi in questa percezione. Ed ecco che entra in gioco il cinema: esso mi ha da sempre fornito un posto sicuro dove assaporare questa intensità senza il rischio di esplodere. Mi ha fatto nascere altre cento volte, come forse solo la musica è riuscita a fare. Per quanto non ami i critici, c’è una frase di Roger Ebert che rende l’idea: “Viviamo in una scatola di spazio e tempo. I film sono finestre alle pareti della scatola”. Amo tutto ciò che riguarda il cinema. Andarci è diventato un rituale per me. “Vieni al cinema?” è stata una mia domanda ricorrente, e chiunque mi conosca può confermare. Ci vado ancora ogni volta che posso, anche se qui in America costa il triplo. È grazie al cinema che è iniziata la mia passione per la recitazione: volevo vivere quello che le persone sullo schermo stavano sperimentando. Non recito da sempre, ho iniziato quando avevo tredici anni, con il teatro, ed è stata la più grande rivoluzione della mia vita: quell’intensità che da sempre ricercavo non solo era a portata di mano, ma era possibile piegarla e riutilizzarla in mille modi diversi, sotto mille volti non miei. È un tantino cliché, ma è la verità. Solo a diciotto anni, quando mi sono trasferito a New York, mi sono davvero avvicinato al cinema come attore, e non sono ancora tornato indietro.

 

  1. Come ti sei avvicinato ai cortometraggi?

– Devo dire per caso, e necessità. Per caso, perché qua a New York ho avuto la fortuna di entrare a far parte di un circolo di ragazzi e ragazze che fanno arte in tutte le sue forme, attori, registi, pittori, musicisti, e scrittori. È gente che sta cercando, tra le altre cose, di cambiare il cinema contemporaneo rendendolo più fresco, accessibile, e vario. Vorrei portare un po’ di questo in Italia. Ho detto necessità perché un corto è più economico da realizzare di un lungometraggio, ma non per questo meno interessante da guardare e realizzare.

  1. Che cosa deve saper fare un attore?

– Emozionare, far vivere, aprire gli occhi e far battere il cuore. Ho studiato il Metodo e credo che la tecnica sia importante, ma conosco decine di attori che potrebbero parlarti per ore di Strasberg o Grotowski entrando nei dettagli, e poi entrare in scena e darti il niente emotivo. Dobbiamo comunicare, comunicare profondamente e realmente. Se no perché siamo qui? Ci sono persone convinte che la recitazione non sia un’arte, a differenza della scrittura o della pittura, ma io non sono affatto d’accordo: noi attori creiamo qualcosa che non esisteva prima di noi, se non su un foglio di carta. Il personaggio è la nostra scultura, la nostra poesia. Brando disse in un’intervista che tutti siamo attori; io credo che tutti lo siamo in potenza, e che utilizziamo maschere continuamente, ma che la creazione non è per chiunque. Un grande attore deve riuscire a vivere dentro la scena, essere talmente presente in quel momento da perdersi nel tutto, dimenticare come ci è arrivato su quel set, e possibilmente persino essere sul set. Essere presente, questo mi è stato insegnato. Non è facile, ci sto ancora lavorando; credo di aver sperimentato questo essere completamente presente, davvero, solo due volte fino ad ora: è stato come uscire dal mio corpo, nient’altro esisteva all’infuori di me e dell’altro attore; mi ero persino dimenticato di recitare. Ero reale, e tutto il resto insieme a me. Una benedizione.

 

5. Quali sono invece i compiti di un regista?

– Prima di tutto deve allenarsi a gridare, gridare forte. Avrei pagato per avere un megafono sul set. Per quanto riguarda i veri compiti di un regista, nella mia limitata esperienza, direi che debba avere una visione completa del film nell’insieme, oltre che di ogni singola scena, rimanendo attento e specifico. Tutti stanno ascoltando te, se tu non sai ciò che vuoi il film sarà caos. Quando scrivo, o preparo un’inquadratura, l’immagine è già delineata nella mia mente nel dettaglio, con colori e tutto il resto. Allo stesso tempo, è bello giocare sul set, sperimentare, non essere troppo rigidi. Se piove, fai danzare gli attori sotto la pioggia. Se la scena non sta uscendo come speravi, trova una soluzione a costo di cambiare una battuta, o anche due. Sul set tutto cambia. Non te lo nascondo, ci sono state un paio di occasioni in quest’ultimo set in cui guardavo gli attori e pensavo tra me “Vorrei essere lì a recitare, mi manca quella sensazione”, ma è il pensiero è sbiadito in fretta quando mi hanno portato un caffè e sistemato una sedia davanti al monitor, all’ombra.

Dal set di “Blue Disincanto”.
  1. Ci racconti la tua scelta di trasferirti a New York?

– Sapevo che, se avessi voluto crescere come attore, sarei dovuto andare via dalla mia città natale. Ho lavorato tanto per prepararmi a questo cambio, e per fortuna ho ricevuto una borsa di studio per un’università a New York. Questo mi ha permesso di trasferirmi lì, ed iniziare anche a studiare recitazione all’HB Studio. Non ero venuto dall’altra parte del mondo solo per formarmi, questo ce l’avevo in mente da prima di atterrare a JFK. Non potevo aspettare, volevo iniziare a lavorare sul set. E così ho fatto. C’è un’aria in questa città che ti droga, e ti spinge a cento all’ora costantemente. Per ora la adoro, un giorno potrebbe rovinarmi i piedi e diventare insopportabile.

 

  1. Che film hai interpretato da attore?

– Ho iniziato con delle parti in dei video musicali, appena arrivato nella grande mela. Ho fatto la comparsa in qualche grossa produzione, prima iniziare a recitare nei miei primi cortometraggi indipendenti. Uno di questi, Undefined, è stato proiettato ad un festival qui a New York, e grazie a questo sono stato notato da un regista, Patrique P. Denize, che mi ha proposto il mio primo ruolo in un lungometraggio, All City. Siamo ancora in fase di riprese, ma sono fiducioso. Tra l’autunno e l’inverno ho recitato in un altro film indipendente, ed altri due cortometraggi, tra cui uno in cui sono un pianista; ho dovuto imparare a suonare il piano, e ancora ora cerco di suonare ogni giorno, anche se le riprese sono terminate! Uno dei bei momenti che ricordo è quando Kodak film ha presentato uno dei corti in cui ho recitato, Journey, sulla loro rivista online. Piccole cose, ma ti fanno sentire bene. Credo. Sai Umberto, a volte corro così tanto che non mi accorgo di quello che mi passa a fianco. Voglio tanto, ma non voglio scordarmi come si cammina, capisci che intendo? Sto lavorando principalmente qui in America adesso, ma ho sempre un occhio che guarda alla nostra Italia. Ad aprile ho trovato un’agenzia a Roma, a cui sono molto grato; Alessandro, il mio agente, mi ha preso dentro quando ancora di me attore non c’era niente fuori, se non un video su YouTube dove interpretavo uno stalker per un duo pop. Grazie a lui, lo scorso dicembre ho avuto il grande privilegio di recitare per la nuova serie tv di Stefano Sollima, Il Mostro, che sarà presto disponibile su Netflix. Sono sempre in cerca di nuovi progetti, ho una sete che non hai idea. Però ti confesso una cosa: su questo ultimo set ho incontrato una persona che mi ha letto passato e futuro, e per il futuro mi ha detto grandi cose; ora, ciò che ha letto del mio passato era corretto, dunque speriamo bene. Se devo sognare, sai cosa mi piacerebbe fare? Recitare in un film girato in Arizona, o Colorado, alla Easy Rider, on the road. Ci stavo pensando ieri sera: immagina, motocicletta e panorami infiniti.

 

  1. Quali hai diretto da regista?

– Da regista vanto sicuramente meno progetti. Il mio primo esperimento è stato l’anno scorso, con il cortometraggio “The Albatross”, che ho scritto e diretto in inglese. È in bianco e nero, e già disponibile su YouTube. Definirei l’esperienza come cruda; abbiamo girato per le strade di New York, con pochi mezzi ma un grande protagonista e, credo di poterlo dire, una bella storia. Prima dell’inizio delle riprese ho girato per giorni nel Village per trovare una location per una delle scene; l’ho finita a contrattare con il proprietario di un diner che mi ha chiesto il doppio di quanto avevo in mente di pagare. Giravamo una scena dopo l’altra, senza sosta; un giorno stavamo sulla quinta, e ha cominciato a piovere all’improvviso. Invece, di interrompere per la giornata, abbiamo deciso di continuare, ed il risultato è stata la scena di apertura del corto, dall’estetica estremamente drammatica, con l’acqua che scende bagnando i capelli del protagonista, che si fa strada tra ombrelli di passanti frettolosi. Sono cosciente del look abbastanza amatoriale, ma mi è servita come esperienza sul campo, e come preparazione per il mio nuovo corto: “Blu Disincanto”.

 

  1. Ho letto che i corti sono a basso costo, se oggi avessi il doppio della somma disponibile per girarli cambierebbe qualcosa?

– Se oggi avessi il doppio della somma disponibile, starei girando un lungometraggio a Parigi (e probabilmente il doppio non basterebbe). Scherzi a parte, fondi maggiori farebbero davvero comodo, ma spero tra le altre cose di dimostrare che anche con un basso budget si può realizzare un prodotto più che valido. Anche l’arte ha bisogno del denaro prima o poi, ma il denaro senza arte non va da nessuna parte quando si parla di cinema, letteratura, musica…

  1. Attualmente cosa stai preparando? So che hai girato un corto nella tua Sardegna, puoi darci qualche anticipazione?

– Abbiamo appena finito le riprese di “Blu Disincanto”, il mio primo vero e proprio progetto come regista. Il film è un cortometraggio drammatico di produzione indipendente italo-americana. Ci tengo molto, sia perché è solo la mia seconda esperienza come regista (appena finito questo set me ne aspetta uno da attore), sia perché nasce dalla fine di una relazione travagliata. Scrivo molto, ho mille idee per la testa, ma mi sono accorto che i progetti che porto a termine di solito nascono da un’ispirazione datami da esperienze personali. Vedremo, magari è solo una fase. La storia non è estremamente complessa, nonostante lo siano i suoi personaggi: Blu Disincanto si concentra sulla relazione di due giovani, Alessandra e Gilberto, tra i quali nasce fin dal primo incontro un amore puro, intenso, raro, in forte contrasto con la seconda relazione raccontata nel film, quella tra Alessandra e sua madre Paola. Non voglio dire troppo prima che esca, ma mi sento di dire che “Blu Disincanto” sarà un prodotto speciale, soprattutto nel panorama cinematografico italiano. Ho avuto modo di riguardare il materiale girato insieme al mio DOP, e non vedo l’ora di condividerlo con il mondo. Sono convinto che l’intera esperienza sia stata aiutata dall’alto. Credo a queste cose. Delle persone grandiose sono entrate nel mio cammino, quasi per caso, e mi hanno accompagnato sul set, rendendolo uno dei migliori in cui ho lavorato, in generale.

 

 

 

  1. Cosa determina le scelte della scenografia, dei costumi e dei luoghi in cui girare i tuoi corto?

– Sarò sincero, nel caso di “Blu Disincanto” l’insieme è arrivato con il particolare. Voglio dire che mentre scrivevo la sceneggiatura sapevo che avrei voluto girare la storia su una scogliera, e che il colore prevalente nel film sarebbe stato il blu. Il resto è arrivato per una serie fortunata di eventi: ho trovato tra le mie foto quella della scogliera di Calamosca, dove abbiamo girato metà del film. Doveva essere quella. Ho trovato una crew in Sardegna, che è cresciuta rapidamente; insieme a Margherita, la costumista, abbiamo lavorato per circa un mese; ci tenevo a riflettere l’evoluzione della protagonista anche attraverso i suoi abiti. Alessandra nel film passa da un vestito bianco, ad una camicetta azzurro chiaro, ad un abito azzurro vivo, ad un maglione blu scuro, fino alla scena finale dove corre con un vestito nero. Il passaggio dal chiaro allo scuro vuole rivelare una maturazione, un appesantimento in un certo senso, accompagnato dalla perdita della leggerezza adolescenziale. Anche Gilberto si evolve, ma al contrario: dal buio alla luce, dal marrone scuro al bianco. Un film è la somma di tutti i suoi elementi, e per “Blu Disincanto” non volevo lasciare nulla al caso.

 

  1. Mi piacerebbe sapere come riesci a coinvolgere gli attori e come ti rapporti con loro durante la lavorazione.

– Essendo principalmente un attore, ho cercato di utilizzare con loro degli esercizi e dei metodi che uso personalmente quando lavoro ad una scena. Abbiamo iniziato a lavorare sui personaggi a distanza, poi in presenza, ogni giorno, mi sono preso del tempo da solo con loro, sia individualmente che in gruppo. Devi dare molto ai tuoi attori se vuoi che loro ti diano qualcosa, soprattutto per un progetto di queste dimensioni: li ho fatti correre e urlare, gli ho parlato come se mi rivolgessi direttamente al loro personaggio, gli ho chiesto di notare i dettagli nel volto e nei vestiti del compagno di scena. Riconosco di essere stato esigente durante le riprese, ma non sono uno che si accontenta facilmente. Divento ossessivo per i dettagli: c’è un mondo in una singola smorfia del viso, nel tono di una battuta.

 

  1. Nel tuo cinema la macchina da presa si muove con parsimonia, e solo quando è necessario, volevo chiederti se ho intuito questa necessità.

– Sì Umberto, e non è solo per risparmiare sulla camera! Posso nascondere le mie origini nel teatro fino ad un certo punto. Mi piace organizzare le scene come ci trovassimo su un palco, e per questo cerco di lasciare respiro agli attori, ai loro movimenti. Ho sicuramente un debole per i piani lunghi e lunghissimi; sono estremamente sexy, anche più dei primi. In “Blu Disincanto” vedrete sicuramente più movimento di camera rispetto al mio primo esperimento, un cambiamento suggerito dal mio direttore della fotografia, Nick Dinner.

 

  1. È più importante farsi notare come autore o come attore ?

 

– Ti risponderei come attore; ma poi rileggendo la domanda me ne sorge spontanea un’altra: farsi notare da chi? Noi attori siamo spesso tormentati dall’idea di dover piacere, di dover conquistare, e questo rischia di prevalere sulla nostra arte. A volte siamo così ossessionati dal fatto che più di tutti gli altri (registi compresi) dipendiamo dalle scelte e dai desideri di terzi nella nostra carriera, che passiamo il nostro tempo a cercare di compiacere queste aspettative piuttosto che concentrarci su quello per cui abbiamo scelto questa carriera: recitare. Se hai fuoco dentro, e tanta tanta voglia di fare, ti noteranno. Ti noteranno, senza dubbi. Io cerco di tenerlo a mente, anche nei periodi più aridi. E ogni tanto, se c’è bisogno, getta un urlo, che ti sentano. Poi torna a concentrarti sull’arte. Con tutto questo discorso non voglio dire che gli attori, e i registi, devono ignorare le opinioni del pubblico; senza la gente il cinema sarebbe morto da un pezzo.

 

  1. Che film guardi? Quali registi ammiri? Quali sono le tue influenze cinematografiche?

 

– Guardo un po’ di tutto, cerco di vedere il più possibile. Ci pensi mai che non riusciremo mai a vedere tutti i film esistenti? Vorrei chiedere a qualcuno bravo in matematica di dirmi la frazione di film che potremmo vedere in una vita. È un po’ come i libri o, peggio, la musica! Comunque, il primo regista che ho conosciuto come vero e proprio autore è stato Hitchcock, con La Finestra Sul Cortile. Mi ha fatto affacciare su quel mondo di cui parlavo prima, mi ha fatto innamorare del cinema, e da lì ho cominciato ad apprezzare i film d’autore, esplorando tra Kubrik, Nolan, Wong Kar-wai, e poi i nostri Virzì, Tornatore, e Sorrentino. Il cinema italiano è una salvezza quando sono qui in America; due settimane fa ho mostrato al mio compagno di stanza La Grande Bellezza, e ne è rimasto estasiato.

 

Bene, Giaime, speriamo di vedere presto il tuo nuovo lavoro!

Ci vediamo alla prima!

Sicuramente Giaime!

                        

                                                                                                                                                       Umberto Buffa

 

 

 

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